Teatro
A cirimonia: voragine e vertigine
CATANIA. Una voragine e una vertigine, ovvero la percezione della voragine del tempo e la consapevolezza della vertigine che accompagna questa percezione. Si muove tra queste polarità “A cirimonia. L’impossibilità della verità” lo spettacolo che, dal 18 al 27 maggio sul palcoscenico del Teatro Verga, ha aperto la stagione post-pandemia dello Stabile di Catania. Registi e interpreti sono Enzo Vetrano e Stefano Randisi, mentre il testo, densissimo di senso, è del drammaturgo palermitano Rosario Palazzolo. Un testo che, esattamente nel solco della poetica di questo artista e teatrante a tutto tondo, sa essere coltissimo senza mai essere pedante e anzi dissimulando recisamente e integralmente una profondità di pensiero che pure è fondamentale. Si tratta di uno spettacolo del quale non è difficile percepire l’importante qualità artistica e non è un caso che, nella stagione scorsa, è stato premiato dall’Associazione nazionale dei critici di teatro. Il congegno drammaturgico gira perfettamente e con un buon ritmo, il dato linguistico oscilla tra un dialetto siciliano di grande forza e di ruvida autenticità e un italiano regionale, urbano, sapido e corposo. Un linguaggio del quale i due interpreti, siciliani anch’essi d’origine, dimostrano di aver capito realmente la potenza espressiva ma del quale forse soffrono un po’ l’aspra irruenza affabulatoria. Ma perché voragine e vertigine? Perché questa coppia di coniugi in scena discute, dialoga, litiga, si punge, gioca con burbera tenerezza, rammemora, prova a celebrare una cerimonia – probabilmente una semplice festa di compleanno -, perché tenta di (ri)attraversare un rito del quale sente ancora la necessità ma probabilmente ha dimenticato il senso? Perché in questo nuovo attraversamento, che non può essere che rituale e festivo, c’è la possibilità (l’unica) di ricostruire un equilibrio umano, personale e di coppia che il tempo spinge a smarrire con il falso allettamento dell’alienazione in una qualunque normalità. Dimenticare, negare, sottrarsi, cambiare spartito, vivere e lasciare che il tempo faccia il suo mestiere, ci può far stare bene ma ci aliena e sottrae a noi stessi. Quella in scena non è una coppia identificabile, ma certo è una coppia vera, di quella verità che solo l’arte può rappresentare, una coppia di persone molto anziane che si è smarrita nel tempo e che nel tempo, nella voragine del tempo, ha smarrito (o ha lasciato che si smarrissero) anche i ricordi più dolorosi e oscuri, le ferite inferte e ricevute, le voci che hanno attraversato, minacciose o tenerissime, le loro vite. La verità nel tempo è impossibile o forse – meglio si direbbe – è ineffabile e inattingibile se non per il ripetersi, rituale appunto, dell’esperienza che in un preciso momento ne ha accolto e incarnato l’epifania. Ma siccome il passato, a pensarci bene, non è mai passato ma, nella sua unica possibile realtà, è sempre incistato nei meandri più profondi del nostro essere e del nostro presente, ecco che il riaffiorare alla coscienza di episodi violenti o comunque dolorosi determina quel movimento, quella complicazione che è un classico motore drammaturgico che anche questa volta funziona a perfezione e sa catturare il pubblico. Ciò che rende ulteriormente interessante lo spettacolo è che non si tratta di un’anamnesi vera e completa, ma di un baluginare improvviso di immagini, di voci, di sensazioni dolorose, di squarci e di ferite mai del tutto rimarginate, che lascia allo spettatore un grande spazio di interazione con lo spettacolo, di ricostruzione di quanto accade in scena. Ecco che ritorna quel binomio che si è detto essere il cardine di questo lavoro, la voragine e la vertigine: il pubblico viene attratto irresistibilmente in questo vuoto famelico che lo spettacolo suggerisce, quindi percepisce la vertigine che dà l’essere spinti, strattonati, costretti a confrontarsi con il dolore e col male che portiamo dentro di noi, ben seppellito e invisibile seppur presente e operante nella nostra vita. Non è poco ed anzi è tantissimo se poi a tutto ciò si aggiunge, a fine spettacolo, la ripetizione ad attori invertiti del suo movimento d’avvio, con un’apertura, questa volta evidente, ad una dimensione filosofica paradigmatica e scopertamente meta-teatrale.
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